Alla regina d’Europa

Alla regina d’Europa

in occasione della venuta a Roma del primate di Polonia

Dalle più alte leggende alle fantasie più squinternate; dalle raffigurazioni rupestri di rozzi romiti e d’innamorati randagi, nessuna donna, nessuna, è stata talmente “immaginata”. Eppure, della Madonna è stato detto quel che non fu detto d’alcuna, come Dante si propose di voler fare di Beatrice e fece anche meglio della Madonna: basterebbe il XXIII canto del Paradiso.

E poi e poi, dottissimo lettore, non soltanto uno scrittore notoriamente cattolico e inglese, ma uno scrittore italiano e non cristiano, alla Madonna di Czestochowa dedicò anni addietro, in un romanzo che alla Madonna di certo non poteva porgere in dono, pagine e parole piuttosto affettuose. Non era uno scrittore dei primi, ma nemmeno fu degli ultimi. Mentre cedette a ogni tentazione, le migliori e le peggiori, a una resistette sempre, che pure per lui, lui italiano, anzi toscano, e non soltanto italiano e toscano, restò sempre presente e forte: la tentazione della preghiera, la tentazione del Signore. Direi persino della Madonna, e penso alla novella “Il giardino perduto”, bella quanto una poesia, che si legge nella raccolta Fughe in prigione. E non è per la Madonna di Czestochowa questo brano?

A un tratto, un profondo rullo di tamburi fece tremare le mura del sotterraneo, e al suono delle trombe d’argento, che squillavano le note trionfali del Palestrina, la saracinesca si sollevò a poco a poco, e tutta fiorita di perle e di pietre preziose, sfavillanti nella luce rossa delle candele, apparve la Madonna Nera col Bambino in braccio. Prostrati con la faccia in terra, i contadini piangevano. Udivo i singhiozzi repressi, il batter delle fonti sul pavimento di marmo. Chiamavo la Madonna, per nome, a voce bassa, “Maria, Maria”, come se chiamassero una persona di famiglia, la mamma, la sorella, la figlia, la moglie.

Accade con la Madonna come con la Croce. La si trova dove meno si pensa, e mai non fa compagnia e coraggio all’uomo. Al tempo delle spartizioni feroci della Polonia, nel 1772, nel 1793, e nel 1795, i polacchi perdettero l’indipendenza. Nel 1830-1831 tentarono riacquistarla, ma fu invano. La Russia degli Zar, la Germania, l’Austria, la mantennero smembrata sino alla guerra penultima. L’ultima guerra poi è scoppiata proprio lì, in Polonia. Quando ci si incontra in un passo come questo del conte Zygmunt Krasinski (1812-1859), anche a non volerlo, si diventa lì per lì pensosi. Durante una visita a Roma, nel 1830, egli, autore di Iridion, il dramma che mette in azione la lotta tra Grecia e Roma, scriveva al padre:

Questa croce (piantata in mezzo al Colosseo) la medesima di mille anni addietro, veniva calpestata proprio qui in questi luoghi stessi; per questa croce giovani cristiane le si gettava in pasto ai leoni e tigri… Questi giorni il Colosseo si ergeva possente e imponente; dentro vi si assideva beata la gente che aveva il maggior potere sulla terra… Ora se ne sta andando in rovina, e cade — la croce però non sembra che cambi. È di legno, come allora; s’alza tutt’ora solida nel bel bezzo della costruzione; si alza sul suolo dove la si perseguitò, e domina dove fu disprezzata.

Così il vecchio Conte. Se non che ben poco ci si può filosofare, su consimili vicende. Caddero, è vero le mura di Roma antica, e il Palatino è tutto una rovina; ma del patriarchìo, della casa dei papi nel primo millennio, ci resta forse molto di più? Anche il nostro corpo, tanto più nobile delle nostre case più belle, cade. Noi, quaggiù, siamo ospiti d’un giorno solo; e per un cristiano la storia non è più che un prologo in campagna. La si ha da vivere con tutti i sentimenti, a occhi aperti, in un impegno estremo: sino all’ultimo sangue, se occorre. Ma è appena l’orto di casa, la terra, è il giardino; la casa è altrove, nell’eterno. Giardino terrestre, questa terra; e poi lungo di tutte le viltà, di tutti gli eroismi. Sulla storia non ci si può dunque tanto filosofare. Tante glorie ci servono a poco. Abbiamo bisogno, diceva san Paolo, d’una gloria sola: la Gloria di Dio.

A proposito: quello scrittore italiano e non cristiano, Curzio Malaparte, aveva sangue straniero nelle vene: era fuor di pseudonimo, un Suckert. Un filo di sangue straniero corre nelle vene di quel mio amico lontano lontano lontano. Com’è una, questa Europa, che si dà per tanto disunita e dispersa! E chissà che nella lauda stessa di Bianco da Siena non echeggi un motivo della pietà germanica? Molti studenti tedeschi erano, allora, allo studio di Siena; ora sta di fatto che, quando Bianco da Siena nella citata lauda dice alla Madonna “O virgo gloriosa / che del buon vino tu sei la cella”, mi vien ora in mente che in un vecchio canto tedesco alla Madonna si dice la stessa e medesima cosa. Darò altrove tradotto questo vecchio canto tedesco, ma è così. La “sobria ebrietas” della preghiera profonda, la custodisce Maria, la Sposa dello Spirito. “El buon vino”, spiega Bianco stesso i propri versi, “si è il dolcissimo amor di Cristo”.

Se avessimo tanto ardire, noi al Cardinale di Varsavia oggi vorremmo rivolgerci così: “Questo buon vino, Eminenza, non manchi mai sulla mensa sua e del suo popolo: tanto le chiediamo anche noi, alla Madonna sua e del suo popolo. Il dolcissimo amore di Cristo”.

Da La ballata della Madonna di Czestochowa di G. De Luca

Filosofia e Religione

Filosofia e Religione

“Pur di tessere e custodire la bellezza di un verso,
sarei disposto a gettare la verosimiglianza dalla finestra”.
Oscar Wilde

Filosofia e religione, ragione e devozione, speculazione e preghiera, hanno mescolato nel fluire della civiltà umana il loro destino: qualunque sia stato il senso del loro rapporto, di alleanza o di separazione, di convergenza o di divergenza e repulsione, esso ha inciso in modo decisivo sul significato dell’uomo più di qualsiasi altro atteggiamento dello spirito. E forse è per questo che oggi, quando la maggior parte della filosofia si è adagiata nell’ateismo per articolare l’essere nella finitezza, paga del vuoto delle sue parvenze temporali, tornano in primo piano le istanze della religione e l’esigenza della preghiera: poco importa che i «chierici» della cultura, laicisti o marxisti od esistenzialisti, proclamino a gran voce che l’uomo è stato finalmente restituito a se stesso. La realtà invece è che mai come oggi l’uomo, per avere negato Dio e per non saper più pregare, « sente » il vuoto e «vive» l’orrore del nulla.

E forse nessun tempo, come il nostro, ha sentito l’urgenza di soluzioni che siano rapide, radicali, ossia che attingano il principio. dell’essere dell’uomo, così che facciano emergere la sua autentica libertà, la sua verità originaria oltre o al di qua di ogni posizione storica acquisita per tradizione speculativa o per autorità dottrinale.

Si tratta che l’uomo chiede senza indugi la parte dell’essere che gli spetta, perché vuole fronteggiare per proprio conto l’avventura della propria esistenza, non consente più a delegare la propria libertà ma è risoluto a viverne l’intero rischio. Non è che l’uomo contemporaneo veda a fondo qualcosa o veda chiaramente tutto questo; piuttosto bisogna dire ch’egli intravvede, a tratti discontinui, nella filigrana del tempo, che sospetta nel caotico incalzare degli eventi di un mondo in trasformazione, che annaspa nell’affiorare della debolezza di quanti finora erano o si dicevano forti… egli sente, più che non comprenda, ch’è venuto il suo « momento »; l’uomo di oggi avverte che si sta avvicinando un «punto di curvatura della storia » e che ormai si annunzia una nuova definizione dell’uomo. Di qui l’attualità del problema religioso.

C. Fabro, La preghiera nel pensiero moderno, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1979, pp. 2-3.

Perché si scrive

Perché si scrive

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
È una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere?
Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola i in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta.
E da questa sconfitta intima, umana, non di un singolo uomo ma dell’essere umano, nasce l’esigenza di scrivere. Si scrive per rifarsi della sconfitta subita ogni qualvolta abbiamo parlato a lungo.

M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996, pp. 23-24